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domenica 4 dicembre 2011

DAL PROFONDO DEL CUORE

Ragazzi, ho deciso di pubblicare a puntate sul Blog i capitoli del mio romanzo DAL PROFONDO DEL CUORE edito il 20 Marzo 2011 da Davide Zedda editore...Buona Lettura!!!!


Il Cuore è la prima parte di te che nasce nel grembo di tua madre.
 È l’inizio, il segno che la tua Vita sta cominciando.
È la casa della tua esistenza.
Lì sono racchiusi gioielli di gioie e speranze, ma anche ragnatele e polveri di sconfitte e amarezze. Non puoi far finta che questo non esiste. Non puoi chiudere le porte delle stanze: più cerchi di chiuderle con forza, più ti si aprono inghiottendoti. E ti perdi. Ama quella casa! Amala fino in fondo! Perché solo ascoltando bene gli echi del suo profondo impari a vivere e trovi te stesso. Anche tra la polvere e il buio.





























Non siamo mai soli...

































1.   


“ Sono a casa”.
Anna Lorenzi si fece scivolare dalle spalle lo zaino Seven nuovo fiammante e appese le chiavi ad un gancetto dietro la porta d’ingresso. Si avviò verso il largo corridoio su cui davano cinque porte in tutto. Superato l’elegante portaombrelli, varcò la prima porta sulla destra. La cucina color pesca era intrisa di sole, che si fiondava dall’unica finestra aperta sul tavolo di marmo, sulle mensolette cariche di pupazzetti colorati e sul bancone da cucina accanto al frigo che portava il peso di un televisore ultimo modello. Stranamente, in quel momento l’aggeggio era spento.
Anna restò impalata sulla soglia, stupita al silenzio che si era trovata dinanzi. Di solito a quell’ora erano tutti in cucina: suo padre che leggeva il giornale; sua madre ai fornelli: Carlo, il suo fratellino di otto anni, che si concedeva assaggi furtivi di qualche buon piatto che sarebbe stato servito a tavola. Eppure, ora, non c’era nessuno.
“Dove diamine sono?” si chiese accigliata, dando le spalle alla cucina e ritornando in corridoio. Si affacciò in camera di suo fratello, ma c’era solo il letto ben ordinato con il pc muto e la torre di WHS della Disney accanto all’armadio. Perplessa, provò a bussare alla porta del bagno, ma non ricevette risposta. Impossibile che non ci fosse nessuno, altrimenti sua madre le avrebbe detto di aspettarla da zia Nilde, come aveva fatto altre volte.
 “Ehi, ma dove siete?” domandò allo specchio che occupava la parete alla fine del corridoio. Una ragazza dai capelli corvini legati in una coda, con grandi occhi verdi che brillavano su un volto roseo e sottile, le ricambiò la stessa occhiata pensosa. Anna aprì la porta della stanza accanto allo specchio. Sarebbe stata completamente immersa nel buio, se dei timidi raggi di sole non avessero filtrato le pesanti tende di lino con angeli ricamati in oro. Al centro della stanza, un enorme letto in ferro battuto troneggiava di fronte ad un gigantesco armadio dalle ante a specchio. Ancora una volta, Anna vide il suo riflesso. Ma vide anche qualcos’altro che a prima vista non aveva notato.
Profondamente addormentata su una poltrona di velluto rosso accanto al comodino ad uno dei lati del letto, stava sua madre, Rita. Anna le si avvicinò. La cascata di riccioli rossi copriva il volto della donna chino sul mento, rivolto verso un cassettone traboccante di foto che reggeva sulle ginocchia. Anna sbuffò.
 “Mamma!”
Rita alzò il capo di scatto. Per un attimo gli occhi blu intenso cisposi di sonno si fissarono in quelli della figlia, ma parevano non vederla. Poi, come se lentamente l’avesse messa a fuoco, disse: “Ah, sei tu…”
“E chi sennò?” le fece eco Anna, incrociando torva le braccia al petto. “Che cosa fai? Ti sei addormentata?”
“Sì, stavo guardando le foto…Poi la stanchezza”. Rita si profuse in un grande sbadiglio.
“Già, la stanchezza” commentò subito la figlia. “Tu e questa smania di perderti tra i ricordi” e accennò alla montagna di foto che riempiva il cassettone. “Per non parlare poi degli straccioni. Logico che ti stanchi”.
“È bello aiutare chi ne ha bisogno” ribattè la madre in tono di rimprovero, improvvisamente sveglia, posando il cassettone sul letto e alzandosi dalla poltrona.
“Ma tu esageri!” controbattè Anna, infastidita. “Manca poco che ti fai una casa in chiesa. Mamma, ma chi te lo fa fare?”
“A me piace” replicò Rita riponendo il cassettone nello spazio vuoto al centro dell’armadio. “E poi è utile. È bello volere bene agli altri”.
“Anche io voglio bene ai miei amici ma non ci lascio di certo le penne sentendomi una schifezza!”
 Rita si portò una mano al fianco e levò l’altra con aria ammonitrice.
“ Tu non capisci, Anna” disse. “Non puoi capire. ‘Ama il prossimo’. Questo dice la Bibbia. E mi sembra che tu non sappia cosa signi…”
“Va bene, va bene, mi arrendo” tagliò corto Anna. Non poteva sopportare i sermoni di sua madre.
Uscì dalla camera da letto e andò in bagno per sciacquarsi velocemente le mani. “Dove sono papà e Carlo?” domandò.
“Ancora devono tornare” rispose Rita entrando in cucina. “Come è andata oggi a scuola?” s’informò poi.
Anna la seguì.
“Bene”.
La madre le lanciò un’occhiata eloquente, mentre indossava un grembiule a fiori.
“Ho preso quattro in inglese” ammise Anna, incapace di resistere al suo sguardo indagatore. Cercando di assumere un’aria innocente, cominciò a stendere la tovaglia sul tavolo.
Ma Rita era decisa a dar battaglia e, gli occhi ridotti a fessure, si preparava alla sfuriata.
“Insomma, Anna!”sbottò, controllando a stento la rabbia. “Si può sapere cosa diavolo stai combinando?”
“Niente” fece Anna, leggera, prendendo piatti e forchette.
“La scuola è cominciata solo da un mese e già hai portato a casa tre insufficienze” continuò Rita. “Quand’è che ti decidi a studiare, eh?”
Anna si voltò verso la madre. Difficile dire se era lei o la pentola sul fuoco a ribollire di più.
“Io studio” disse tranquilla.
“Ah sì?”. La voce di Rita traboccava sarcasmo. “Come no. Tutte quelle ore a telefono con Stefania. Eh no, Anna. Mi sa che dovremo cambiare musica. Ricordi che l’anno s corso i professori ti hanno promossa per grazia, dandoti fiducia? Bè quest’anno è la volta buona che ti bocciano”
“Oh, mamma, per favooore!” gemette Anna, schiaffando una bottiglia d’acqua al centro del tavolo. Si era pentita amaramente di non essersi impegnata di più nella lotta contro lo sguardo indagatore di sua madre. “La scuola è cominciata solo da un mese. Resta tutto un anno per emettere il verdetto!”
“Non c’entra niente” incalzò Rita (se i capelli avessero potuto portare il segno della sua rabbia sarebbero stati di un rosso più acceso) “Bisogna impegnarsi dall’inizio. La scuola è importante”
“Senti, mamma!” esclamò Anna stufa, lo sguardo torvo fisso su di lei. “Io me ne STRAFREGO della scuola”.
“Non parlarmi così!” la rimproverò Rita, corrugando la fronte.
 “ Non mi interessa della scuola!” riprese Anna, decisa a dar sfogo alla sua rabbia. “Io VOGLIO DIVENTARE UN’ATTRICE,OK? METTITELO BENE IN TESTA! IL BANCO MI STA STRETTO E PER ME NON HA SENSO!”
“Tu sei pazza! “ commentò la madre, scuotendo la testa incredula. “Ti rendi conto di quello che dici?”
“So bene quello che voglio fare, grazie” replicò Anna. “ Di sicuro non voglio fare la tua stessa fine, chiusa tra i ricordi e le porte di una chiesa. No, mamma. La vita che tu insisti tanto a volermi tracciare non mi va a genio”.
Rita era sbiancata violentemente e deglutì un paio di volte.
“C-come osi?” balbettò, affannosa. “C-come…Perché mi dici questo?” Gli occhi azzurri divennero stranamente lucidi. “Insomma, non capisci? Io ti voglio bene”. “Non mi sembra, mamma”.
Le parole erano appena scivolate dalle labbra di Anna, quando la ragazza avvertì un dolore alla guancia destra. La madre, ora, le stava dinanzi, la mano alzata. Anna, stordita, si portò una mano nel punto in cui aveva ricevuto lo schiaffo: sua madre non aveva mai fatto una cosa del genere. Evidentemente anche Rita era rimasta scioccata, perché i suoi occhi vagavano confusi dalla mano alla figlia. Cadde un silenzio nervoso.
“Non ti riconosco più, Anna”.
La rabbia era svanita dalla voce di Rita, lasciando il posto ad una strana tristezza. “Prima non eri così. Mi chiedo dove io e tuo padre abbiamo sbagliato con te”. “
Tu sbagli tutto, tutto!” gridò Anna, scoppiando in lacrime. “TI ODIO! TI ODIO! TI ODIO!”.
E così dicendo superò sua madre e corse via nel corridoio, per poi sbattersi con forza la porta della sua camera alle spalle.   

* * *
Per tutto il pomeriggio, Anna restò tra i mobili rosa pallido della sua stanza, stesa sul letto, apatica, la mente che si arrovellava furiosa attorno alle immagini della lite recente. E più ci pensava, più sentiva la rabbia montarle dentro.
 “Tu sei pazza”, “Non capisci”, “La scuola è importante”.
Era stufa di essere trattata come una bambina inesperta. Lei sapeva cosa doveva fare e nessuno, tantomeno sua madre, doveva intromettersi nella sua vita. Era un essere libero.
Sbuffando, si alzò dal letto e andò alla finestra, fissando, ma senza vederlo, il Vesuvio lontano che torreggiava sugli alti palazzi attorno al condominio dove lei abitava al quarto piano. Era proprio una delle rare belle giornate di sole d’ottobre.  Lanciò un’occhiata alla sveglia sulla scrivania: erano le quattro e mezzo. Avrebbe dovuto studiare una decina di pagine di storia ma non ne aveva voglia. E poi tra un’ora avrebbe dovuto incontrarsi con Stefania, la sua migliore amica.
Sbuffando ancora, aprì il cassetto della scrivania e ne estrasse una graziosa trousse con tanto di specchio. Era stato un regalo di sua madre, ma cercò di non pensarci e prese subito a passarsi il rossetto sulle labbra sottili. Tuttavia era difficile cercare di ignorare il nervosismo che le vorticava dentro.
Il fatto era che lei, Anna Lorenzi, era un pianeta con un’orbita differente nell’universo della sua casa. I suoi genitori e Carlo non avrebbero potuto essere  più diversi da lei di come lo erano. Matteo e Rita Lorenzi erano giudicati da tutti genitori esemplari, giusti, né troppo severi, né troppo amici. Erano dipinti come l’immagine dei genitori modello che qualunque figlio avrebbe dovuto seguire come guida, guida che non esitava ad aiutare i suoi assistiti  nei momenti di bisogno.
Ma se il piccolo Carlo riconosceva questi segni d’amore, Anna non li vedeva affatto. I due ‘carcerieri’: così aveva soprannominato sua madre e  suo padre. Sempre pronti a farle la morale, a dirle cosa era giusto e cosa non lo era, a vietarle di fare certe cose( “Sei troppo piccola per la discoteca!”). Ma quello che lei non tollerava di più  era la loro, onnipresente idea di Dio e della Chiesa nella loro vita.
I signori Lorenzi erano responsabili dell’oratorio parrocchiale, nonché di alcuni gruppi di beneficenza. Perciò passavano gran parte del loro tempo in parrocchia. Questo Anna poteva anche sopportarlo (più stavano fuori dai piedi, più poteva parlare al telefono in tutta libertà con Stefania). Ma quello che detestava era la loro fissa di rifilare versetti biblici o riflessioni teologiche in ogni avvenimento. Per non parlare poi di quando tornavano dalla messa ogni domenica. Avevano un’aria sollevata, quasi nuova, come se il loro Dio gli avesse dato un talismano per affrontare la vita di tutti i giorni.
Che stupidaggini! La vita si affrontava nella concretezza, non imbevendosi di idee e figure astratte che magari non esistevano neanche. Ah, com’era contenta lei di essersi sottratta all’illusione di una vita governata da un Dio buono in cui stava per cadere da piccola!  Suo fratello Carlo seguiva il ‘modus vivendi’ dei genitori, ma secondo lei avrebbe  capito prima o poi. Forse era ancora troppo piccolo. Sì, Anna era proprio contenta di non essere come tutti loro. Non aveva bisogno di Dio, perché semplicemente non esisteva o, per meglio dire, non si curava affatto degli uomini. Stava bene così, con la sua vita. E poi se Dio fosse stato buono come dicevano, non ci sarebbe stato il dolore, la morte…
TOC TOC
“Non ci sono!” fece Anna in risposta alla bussata. “Non disturbate. Sto studiando” aggiunse poi chiudendo di scatto la trousse  e prendendo, così velocemente come se  l’avesse fatto comparire dal nulla, il suo libro di storia e lo aprì di malagrazia. Ma nonostante l’esplicito divieto, la porta della stanza si aprì.
“Grazie per il gentile benvenuto” disse sorridendo un uomo alto e magro, dai corti capelli castani e dai lucenti occhi verdi che brillavano dietro gli occhiali sottili. “Papà, se sei venuto pure tu a rompermi l’anima, allora sei pregato di andartene” disse Anna, mentre il padre si chiudeva la porta alle spalle. Ci mancava anche la predica di suo padre che, tornato a casa dopo la sua ‘reclusione’ in camera, aveva saputo dell’accaduto.
“Non voglio rompere niente a nessuno” scherzò Matteo Lorenzi, sedendosi sul letto di fronte alla scrivania. “Anzi. Voglio costruire qualcosa”.
“Il cantiere è chiuso” replicò Anna, in un atono tentativo di essere spiritosa.
 “No, no. Sono sicuro che è aperto”.
“Papà, che vuoi?” sbottò Anna, chiudendo il libro di scatto e fissando gli occhi verdi in quelli dello stesso colore del padre.
 Matteo le ricambiò l’occhiata.
“Tua madre mi ha detto della vostra lite” disse poi.
“Dai, avanti! Spara!” sibilò Anna. “ Dimmi che ho sbagliato, che sono una figlia ingrata, una ragazzina…”
“Non ho intenzione di dirti nulla di tutto questo” la interrupe il padre, tranquillo. “Voglio solo sapere perché ti stai comportando così ultimamente”. Qui aleggiò una nota di preoccupazione nella voce.
“Non mi sto comportando in nessun modo ‘così’ ” ribattè Anna acida, chiudendo con rabbia il suo libro e prendendo di nuovo la trousse.
“Certo che ti sei rivolta in modo molto forte alla mamma”.
“Papà, ma io mi incazzo! Non ne posso più!”
“Noi ti vogliamo bene”.
Anna alzò gli occhi al cielo, il pennello del fard in mano. La scocciava quella risposta banale sempre pronta a giustificare qualsiasi azione restrittiva dei genitori.
“Volere bene non significa però rendere la vita imposibile” osservò. “Voi mi state col fiato sul collo”.
Matteo scosse lievemente la testa, un sorriso che gli increspava le labbra. “Adolescenti” mormorò poi, quasi tra sé e sé.
“Sono una donna, io” lo riprese la figlia.
“Una donna molto impulsiva però” controbattè Matteo, gli occhi stretti in una lieve aria di rimprovero. “Sempre pronta a scoppiare per qualsiasi cosa, a non riflettere mai prima di aprire bocca. Sai, le parole possono fare più male di quanto si pensi”.
“Ti stai riferendo al mio ‘ti odio’?” fece Anna con aria di sfida. 
“Non sono cose da dire a nessuno, Anna” replicò Matteo. “A nessuno. Tantomeno alla donna che ti ha dato la vita”.
“Oh, Pà, non fare il filosofo!”
“Invece lo faccio”.
Anna si voltò di nuovo  a fissarlo e notò l’aria dura e determinata dipinta sul volto, scolpita negli occhi. Un’aria che non aveva mai visto.
“Oggi nessuno pensa  a queste cose” riprese Matteo, sempre con quella sua voce forte e sicura. “ Nessuno pensa al valore dei genitori e che se questi non ci fossero, non ci sarebbe la vita. Nessuno pensa che essere madre o padre è il mestiere più difficile. Oh, Anna. Se tutti dessero il giusto valore a queste due figure, il mondo sarebbe diverso” e qui la sua voce divenne quasi un sussurro addolorato. “I figli si ribellano, fanno di testa loro, rinnegano la famiglia…”
“Stai forse dicendo che io non capisco, che non apprezzo, che non sono una brava figlia?” si infastidì Anna. Detestava quando gli altri le puntavano il dito contro. Matteo si alzò dal letto.
“Ti ho già detto che non ho intenzione di farlo” rispose. “Ma lascio a te il progetto di costruzione. Sei tu che devi lavorare. Medita”. Così dicendo fece per andarsene. “Però per la mamma va bene, eh?” saltò su Anna. “Per lei va bene prendermi a schiaffi e abolire il dialogo!”.
Matteo le riservò un’occhiata comprensiva.
“Non ti chiedi mai perché la mamma si perde spesso tra i ricordi?”
Anna restò spiazzata da quella domanda.
“Se lo sapessi “ concluse il padre, “non parleresti così e capiresti”.
E poi, aperta la porta, se ne andò lasciandola sola.

























2.

 
“Dove vai?”
“Esco con Stefania, Carlo”.
Carlo aveva lasciato i suoi giochi per fiondarsi in corridoio, mentre Anna indossava la giacca. Era un bambino grazioso, con i capelli castano scuro e gli stessi occhi azzurri di Rita.
“Dopo non è che potresti aiutarmi con una ricerca?” domandò il bambino.
“No” rispose Anna, secca.
Carlo si immusonì, mentre osservava la sorella marciare fino allo specchio in fondo al corridoio. Anna lo vide riflesso nel vetro.
“Oh, Carlo, non fare storie” si lagnò stizzita. “Ci manchi solo tu oggi”.
“Hai litigato di nuovo con la mamma, vero?” commentò subito Carlo.
“Non mi va di parlarne”.
“Mai una volta che state in pace” incalzò il bambino. “Sempre a urlarvi contro come streghe. Perché non la piantate? E perché tu non studi?”
“Carlo, fuori dai piedi!”
Anna lo spinse da parte e si avvicinò alla porta d’ingresso. La testa di Rita si affacciò dalla cucina.
“Torna presto” disse con voce atona.
Anna la ignorò. Si chiuse la porta alle spalle e chiamò l’ascensore.
“Anna!”
Carlo aveva aperto la porta ed era spuntato sul pianerottolo.
“Torna presto, davvero” disse ansioso. “Non fare stare in pensiero la mamma. Fallo per me”.
“Ok, ok” tagliò corto Anna, annoiata.
L’ascensore arrivò e prima che le porte si chiudessero dietro di lei, potè vedere ancora il volto di  Carlo, dipinto da quella che sembrava un’indecifrabile espressione di dispiacere. 

* * *

“Vedrai che gli passerà. Lasciali sbollire”.
“Non ne posso più. Sempre pronti a sbraitare. Tutta colpa di quella stronza della professoressa Morante. Vorrebbero una figlia come quella secchiona di Donati”. Eloisa Morante era la professoressa di inglese di Anna; Martina Donati era la più brava della classe.
“Bè, tutti i genitori sono così, Anna”.
Stefania De Simone, la sua migliore amica, le era solidale. Solidale quel poco che bastava per placare la sua stizza. Ormai la conosceva così bene che sapeva come domarla e farla ritornare in sé. E forse Anna questo lo aveva capito, perché negli occhi chiari della compagna, in quel volto incorniciato da lisci capelli castani, leggeva la soluzione ai suoi ‘attacchi rabbiosi’, come li chiamava lei. Era l’unica persona che non le era mai contro, ma era sempre pronta ad aiutarla e dirle che tutto, di qualunque cosa si trattasse, prima o poi sarebbe passato.
Con Stefania la vita era tutta un’altra cosa! Le fumatine segrete nei bagni della scuola, i pettegolezzi su amiche e corteggiatori, i loro pomeriggi al “ Cafè della Primavera”, il locale dove si incontravano. Anche quel pomeriggio erano sedute lì, al solito tavolino.
“Non fartene un problema” disse Stefania giocherellando con la cannuccia del suo succo di frutta. “I genitori sono fatti così. Non cambieranno mai”.
“ Oh,no, è meglio che cambino” replicò subito Anna, addentando il suo tramezzino con voracità ( la fame si faceva sentire dopo il pomeriggio di’astinenza forzata’), inorridita al pensiero che ciò che l’amica avesse detto fosse vero. “ Se non cambiano, me ne vado a vivere in un altro posto”.
“Oh, cielo!” esclamò Stefania divertita. “Anna, devi essere proprio disperata per pensare di fare una cosa del genere”.
“Sì”.
“ E dove te ne andresti?” continuò Stefania, maliziosa.
Il volto di Anna si trasfigurò immediatamente. Un’aria sognante e beata lo prese tutto.
“Andrei dal mio Mirko” sospirò poi la ragazza, poggiando la testa su una mano, lo sguardo perso nel vuoto.
Stefania rise così forte che gli altri pochi avventori seduti ai tavolini si voltarono al suo indirizzo.
“Anna, sei proprio cotta! Oddiooo! No, è troppo bella questa”.
“Piantala” si lagnò Anna, contrariata. “Io lo amo”.
Stefania smise a fatica di ridere, gli occhi fissi sull’amica.
“Devi vederti la faccia che fai quando parli di lui” disse tra i singhiozzi che ora le avevano preso la voce. “Davvero! Sembri un baccalà”.
“Per il mio amore sono disposta ad interpretare anche il ruolo del baccalà” ribattè Anna divertita, in tono altero. “ D’altronde una brava attrice come me non ha problemi a passare da un ruolo all’altro. Lo diceva sempre Lina”.
Lina era l’insegnate della scuola di recitazione da cui i suoi genitori l’avevano ritirata dopo il mediocre anno scolastico scorso.
“Non ha neanche problemi ad affrontare i ‘polipi’ che vogliono annidarsi sul palcoscenico?” le disse Stefania, accennado con lo sguardo a  qualcosa alle sue spalle  
Anna si voltò di scatto e  diede in un basso gemito sofferente.
‘Il Cafè della Primavera’ era un bel locale con il suo lucido pavimento di marmo, i tavolini di mogano ben ordinati, la buona musica della radio che vibrava assieme al chiacchiericcio dei clienti. Eppure c’era una sola cosa che Anna odiava di quel posto: quel locale era frequentato da Guido, un ragazzo che aveva finito il liceo l’anno prima, un bruttone che le aveva messo gli occhi addosso e non la lasciava mai in pace. L’unica cosa buona che aveva, secondo Anna, era la patente.
Quando la ragazza vide il volto brufoloso del ragazzo, con i suoi grandi e orrendi occhiali rettangolari e i ricci capelli neri, pensò subito alla fuga dal locale, ma Stefania la avvertì con un’occhiata che era meglio non muoversi perché il ragazzo stava venendo verso di loro.
“Ciao” le salutò Guido quando si avvicinò.
“Ciao, Guido!” gli fece in risposta Stefania con un sorriso.
Anna si limitò a fargli un cenno della mano con aria antipatica.
“Posso sedermi?”
“Si, prego, prego” disse Stefania zuccherosa, spostando la borsa dalla sedia per fargli posto e ignorando l’occhiata torva che le rivolse Anna.
Occhiata che probabilmente Guido notò, perché rivolto verso Anna disse: “ Sempre se non vi dispiace”.
Anna moriva dalla voglia di dirgli di sì, ma si limitò a  rispondere con lodevole affettazione di cortesia: “Certo che no”.
Guido si sedette con aria imbarazzata.
“Allora? Cosa ci racconti, Guido?” domandò Stefania, sorseggiando un altro po’ del suo succo di frutta.
 “Niente di che” rispose il ragazzo. “Solite cose. All’ Università la Medicina mi strapazza come sempre”.
“Che palloso!” pensò Anna. “Il mio Mirko ha sempre cose entusiasmanti da raccontarmi”.
“E voi?” chiese poi Guido spostando lo sguardo da Stefania a Anna( questa represse un brivido quando si trovò quegli occhiali rettangolari davanti). “Come state?” “Molto bene” rispose Anna con finto entusiasmo. “Stavo aspettando Mirko per andare un po’ in giro”.
Dall’altro lato del tavolo Stefania si accigliò e le lanciò uno sguardo sorpreso.
Dal canto suo, Guido mise su una strana espressione. “Capisco”disse con voce fioca. “Salutami tanto Mirko. È da quando ho lasciato la scuola dopo il diploma che non lo vedo” Poi si alzò.
“Gia te ne vai?” fece Anna, alzando la testa così di scatto che il codino ondeggiò e sperando che Guido le rispondesse di sì.
“Si”. (Anna non fu abile nel nascondere un sorriso di vittoria). “Comunque” continuò Guido con voce piatta voltandosi di nuovo verso Stefania, “volevo dirvi che il 31, Rossi dà una festa di Halloween”.
“Davvero?” saltò su Anna.
Rossi era un ragazzo che si era diplomato l’anno prima, molto amico di Mirko. 
“Mi ha dettto di invitare anche voi del terzo anno assieme a qualcuno della 4G”. 4G…la classe di Mirko! Rossi aveva invitato lei…e avrebbe invitato anche Mirko! “Grazie per avercelo detto” disse Stefania in tono dolce.
“Sì, grazie davvero” s’intromise Anna che già pregustava la serata con Mirko.
“Di niente” fece Guido, immusonito. E con un ultimo cenno della mano se ne andò.. “Sei stata una strega, Anna!” esclamò Stefania senza giri di parole quando Guido fu uscito dal locale. “Perché hai inventato la balla dell’uscita con Mirko? Guido si è sentito una merda!”
“Ma non è una balla” sorrise Anna, maliziosa, estraendo il cellulare dalla borsa e  premendone freneticamente i tasti. “Gli sto giusto inviando un messaggio per dirgli di raggiungermi”
“Ma, Anna, Guido ci è rimasto male!”
“Non hai detto anche tu che è un bruttone?” le fece Anna, torva.
“Bè, sì” rispose Stefania, imbarazzata. “Ma è pur sempre una persona, non un animale”.
“In amore tutto è dovuto, mia cara” controbattè Anna. “Non avevo tempo da perdere con lui. Ma ha fatto bene a  venire. Mi ha dato una bellissima notizia, nonché l’ennesima occasione per poter stare con Mirko”. Fremette di emozione. “Devo assolutamente pensare a cosa mettermi”.
E subito si lanciò nella lista di indumenti del suo guardaroba. Stefania la ascoltava pensosa e  perplessa.
“Tu verrai?” chiese poi Anna all’amica quasi venti minuti dopo.
“Sì. Penso di sì”.
“Bene! Sarà una serata memorabile”.
“Sicuro. Se verrai alla festa con me”.
Anna scattò subito in piedi, come se la sedia fosse stata attraversata dalla corrente elettrica.
Se i capelli castani di Stefania presentvano a tratti riflessi biondi, quelli di Mirko erano oro colato che brillava assieme all’azzurro degli occhi e al bianco sfavillante della dentatura regolare.
“Sei stato velocissimo!” commentò Anna, gettandosi letteralmente al suo collo. Stefania abbassò lo sguardo, fingendosi improvvisamente concentrata sulle sue unghie.
“Sì” rispose Mirko. “Sono sempre scattante quando si tratta di vedere te”.
Anna avvampò di euforico entusiasmo. “Mi fa molto piacere!” esclamò leziosa. “Allora” aggiunse poi, “posso già considerami la tua dama per la festa di sabato 31?”
“Certo, mia bella principessa”.
“Oh, come sei dolce”.
“Tu lo sei più di me”.
“Hem, hem”. Stefania tossicchiò (forse per dissimulare una risatina). “Scusate se vi interrompo ma ora io dovrei andare” e lanciò un’ochiata eloquente ad Anna.
“Ci sentiamo dopo, allora” disse questa radiosa, ringraziando in cuor suo l’amica che le permetteva di stare sola col suo ‘amato’.
“OK. Ciao, Mirko”.
“ Ciao, Stef!” salutò allegramente il ragazzo.
E anche Stefania lasciò la scena.
“ Siamo rimasti soli, allora” commentò Anna, sorridendo a Mirko.
“Soli col nostro piccolo mondo fatato” le fece Mirko in risposta. Anna sorrise raggiante e gli prese un braccio, mettendosi la borsa in spalla.
“E allora mi accompagni, dolce cavaliere” disse poi. “Come del resto è chiamato a  fare la sera del 31”.
“Ai suoi ordini, madame”. E i  due ragazzi uscirono alla luce del sole di pomeriggio.  


3.

“Fai la figlia acqua e sapone, dolce, servizievole. Inginocchiati, se necessario”
“E’ inutile. Non ci cascano”
“Provaci! Non puoi lasciarti sfuggire un’occasione del genere, Anna!”
“Lo so, Stef. Lo so”.
La mattina seguente, Anna era totalmente depressa. La sera prima c’era stata l’ennesima sgolata con i suoi. Non aveva neanche finito di dire: “Sabato, Rossi dà una festa”, che sua madre, lo sguardo omicida, aveva emesso un secco “No”. E poi si era intromesso suo padre che aveva obiettato un freddo ”Se costruisci bene, allora ti pagheremo.Ora non mi sembra il caso”.
Anna gli aveva gridato contro, giurato e spregiurato che avrebbe fatto la brava, ma non era servito a nulla. E se aveva sperato di trovare almeno in Carlo qualcuno che avrebbe spezzato una lancia in suo favore, si era sbagliata di grosso.
Carlo era rimasto muto come un pesce. Che canaglia! Parlava solo quando non doveva!
Depressione, umore sottoterra...quella giornata non si prospettava un granchè . L’aria tetra, entrò in classe senza salutare nessuno e andò a sedersi al suo ultimo banco. Stefania si fece scivolare sulla sedia accanto, comprensiva.
“Capitano tutte a me!” si lagnò Anna, le braccia incrociate. “Sempre! Uffa, ora che io e Mirko potevamo stare assieme...”. 
“Si troverà un rimedio” la rassicurò Stefania. “Vedrai che qualcosa si può fare”. “Buongiorno”.
“Buongiorno” risuonò nell’aula.
Anna e Stefania tacquero. La professoressa d’inglese, Eloisa Morante, era entrata in classe.
“Bel modo di cominciare una giornata che è già una merda” soffiò Anna all’orecchio di Stefania.
Eloisa Morante era una donna graziosa, con i capelli biondo scuro legati in una lunga treccia e chiari occhi a mandorla, in quel momento gonfi e arrossati.
“Ehi, guardate gli occhi!” sussurrò ad Anna e Stefania Elvira, la ragazza occhialuta che gli sedeva davanti. “Avete visto? Sembra che abbia pianto”.
Anna e Stefania convennero con lei. La professoressa Morante aveva un’aria più scura mentre prendeva posto dietro la cattedra e apriva il registro. Evidentemente anche gli altri compagni lo avevano notato, perchè Anna li vide borbottare tra loro. “Così com’è incavolata sicuramente farà a pezzi chi interroga” bisbigliò di nuovo Anna all’indirizzo di Stefania.
“Oh, non dirlo!” rabbrividì l’amica, sfogliando con aria affannosa e febbrile il libro d’inglese, mentre la professoressa faceva l’appello. “Io non ho studiato!”
Anche se aveva preso quattro, Anna era contenta di essere già stata chiamata alla cattedra. Almeno lei era al sicuro.
“Donati”.
Una ragazza al primo banco (dove sedeva sola) dal  volto pallido punteggiato da qualche brufolo e con i capelli disordinati tenuti da un fermaglio blu, si alzò.
“Uff!” sbuffò Anna. “Quella secchiona!”.
Martina Donati: la più brava e, inutile dirlo, la più odiata della classe. Anna vide le sue compagne sedute davanti tirare sospiri di sollievo. I ragazzi dall’altra parte della fila si scambiarono occhiate come a voler dire “Che palle!” o ridevano maligni fissando Martina, che, arrivata alla cattedra, abbassò lo sguardo.
“Bene, Donati” esordì la Morante. “Traduci: “Se avessi comprato più dolci, tutti avrebbero potuto mangiarli”.
Martina prese il gesso e in cinque secondi la frase già luccicava alla lavagna.
“Bene” commentò la professoressa dopo una rapida occhiata. Dettò altre frasi che Martina  tradusse sempre correttamente. Stefania era meravigliata per quella bravura. “Beata lei...” sospirava.
Anna era semplicemente infastidita, come se anche Martina stesse contribuendo a farle montare ancor di più la rabbia che covava dentro.
“Brava, Martina” sorrise la Morante dopo un pò, ma l’aria scura non scomparve. “Mi parli adesso di Shakespeare e della sua concezione dell’amore in Romeo e Giulietta?” Spedita, Martina cominciò ad esporre in inglese la lezione e aveva un’aria quasi estatica sul volto, diversa dall’aria grigia che di solito si portava dietro.
“Prova piacere mentre parla di Skakespeare!” gemette Anna, in modo che solo Stefania potesse sentirla. “Oh, cielo!”
Molto tempo dopo la Morante interruppe Martina e le chiese: “Ti è piaciuto questo argomento, vero?”.
 “Sì’” rispose Martina. “L’amore è sempre bello, potente e sconvolge tutto...persino la morte”
“Chissà se lo troverai mai, l’amore” fece Anna in un bisbiglio ben udibile.
I ragazzi scoppiarono a ridere gongolanti. Alcune ragazze si lasciarono andare a dei timidi sorrisi. Martina abbassò di nuovo lo sguardo, arrossendo.
“Silenzio!” tuonò la Morante battendo una mano sulla cattedra. “Lorenzi, vieni qui!” “Perchè?” sbottò Anna, senza trattenersi. Voleva tanto sfogare la sua rabbia! Stefania le diede un calcio da sotto il banco.
“Vieni qui!” ripetè la professoressa.
Anna si alzò, avanzando lungo la fila di banchi. I compagni assistevano alla scena in silenzio.
“Bene” disse la Morante. “Chiedi scusa alla tua amica”.
“Amica?” ripetè Anna accigliata in tono di sfida.
“Sì” ribattè secca la professoressa. “Chiedile scusa”.
Anna portò lo sguardo su un’imbarazzatissima Martina.
“Non fa niente” borbottò questa. “Non fa niente, professoressa”.
“No, no”. La Morante scosse la testa. “La tua amica deve chiederti scusa”.
“Non accetto le scuse solo perchè le fa quando glielo chiede Lei” gridò Martina all’improvviso, scoppiando in lacrime. Poi spalancò la porta e corse via dalla classe. “Martina!” la chiamò la Morante.
La classe era piombata in un attonito silenzio. Anna restò impalata. Era la prima volta che Martina si comportava così.
“Mi fai pietà”.
La Morante ora fissava lei.
“Scusi?” fece Anna, come se non avesse capito.
“Mi fai pietà” ripetè la professoressa. “Non capisci niente. Non capite niente!” gridò poi rivolta alla classe. “Basta essere un pò diversi, più sensibili del normale e si è tagliati fuori? Ma che razza di mondo è questo? Che razza di persone siete?”.
I ragazzi si erano ficcati un pugno in bocca per non ridere. Stefania sembrava sconvolta e quasi dispiaciuta. Anna, invece, era arrabbiata.. Come osava quella donna parlarle così!
“Vi dico che sono orgogliosa di dare dieci alla vostra amica” continuò la Morante. “Sì, dieci! Perchè è ottima sia come studente che come essere umano”.
“Perchè è una lecchina, vuole dire” intervenne un ragazzo.
“Ti sei beccato un due, Laezza” tuonò la Morante rivolta a lui. “Quanto a te” aggiunse poi voltandosi di nuovo verso Anna (il ragazzo fece un gestaccio alle sue spalle), da oggi in poi sarai la compagna di banco di Martina e farai di tutto per esserle amica, chiaro?”
“No, non può!” protestò Anna, allibita.
“Non sei tu a decidere le regole” sbottò la Morante. “Quindi Martina starà seduta accanto a te”
“Ma...”
“Basta le apparenze!” esclamò con voce acuta la professoressa. “Basta! Amate! Amatevi! Potreste pentirvi se non lo fate!”
E con queste parole fece cenno ad Anna di occupare il banco accanto a quello di Martina. 

domenica 6 marzo 2011

Pensiero...

Può forse un seme crescere  senza terreno? Non affannarti...Abbia dimora il tuo cuore...Non vagare..Imprimi di te il tuo Mondo. Anche quando la melanconica luna sarà calata, i tuoi figli vedranno il tuo baobab
Ci sono quei momenti in cui taci e ascolti la Vita dentro te...In quei momenti ti senti, ti capisci, soffri, ridi, ti maledici o ti benedici...e nonostante tutto ti senti davvero TE STESSO! Nessuna persona potrà mai togliertelo dalla testa...Solo il Signore ha l'onore di mostrarti quanto sia meraviglioso il tuo forziere, sebbene sporcato dal fango della debolezza della tua umanità...
Ma cosa stai aspettando? sta arrivando la Notte? E non dormire! No, No! resta sveglio..credimi...non lo vedi? è gia lì, all'orizzonte! Il Sole! Il Sole! Dentro di te! Devi sprizzare di Luce in questa notte, con canti, con gioia! Non sai che sei Sacerdote dell'Alba? Fuori c sono dei fedeli che aspettano una tua parola..CORAGGIO!



Romanzo DAL PROFONDO DEL CUORE

Questa è la sintesi del mio romanzo che uscirà il 20 marzo 2011, edito da Davide Zedda Editore. 



SINTESI DEL ROMANZO
Anna Lorenzi è un’adolescente napoletana come tante. Litiga con i genitori, odia la scuola, sogna di diventare un’attrice, perde la testa per Mirko, il belloccio della scuola, e spettegola con la sua migliore amica Stefania su “secchioni” e spasimanti indesiderati. Una ragazza normale, superficiale. Ma , improvvisamente, la sua vita viene sconvolta. La notte di Ognissanti le compare sulla parete della sua stanza un’ombra argentata. L’ombra dice di chiamarsi Azzurro e viene dal suo stesso Cuore. Ed ha una missione per lei. “Trova la Stella, un frammento di Luce per cui vale la pena vivere”. Per Anna tutto cambia. Giorno dopo giorno riscopre se stessa, il dolore mai affrontato per la morte di sua nonna che l’ha resa fredda e mediocre ma soprattutto la sua capacità di amare, stando con gli altri e guardando oltre l’apparenza.
Ma c’è un ultimo velo da strappare, un ultimo velo che sembra volerla separare dalla Verità, da Azzurro stesso, per gettarla nel Buio, per farle credere che tutto è vano, per gettare all’aria tutto quello che ha costruito...
È la sfida finale. L’ultima battaglia, per capire davvero se ha trovato la Stella, se ha imparato ad ascoltare  ciò che sussurra dal profondo del cuore per essere pronta a trovarsi faccia a faccia con la Verità.

giovedì 3 febbraio 2011

Il Sussurro Dell'Infinito

IL SUSSURRO DELL’INFINITO

Il soldato se ne stava fermo sulla soglia, aspettando la risposta dell’uomo che sedeva alla scrivania di legno, al centro di quell’aula grande e fredda. Il Dottor Schulz fece un cenno d’assenso con la testa, le labbra e gli occhi composti in un’aria glaciale. Il soldato se ne andò. Il Dottor Schulz rimase in attesa, scarabocchiando vagamente sul foglio che aveva dinanzi. Fuori della finestra, le nubi grigie vorticavano nel cielo. “SCHNELL! SCHNELL!”. Cinque minuti dopo il soldato fu di ritorno. Dietro di lui si apriva una fila di una ventina di uomini magri e smilzi, i capelli rasati a zero, i vestiti a righe tutti uguali e laceri. Il Dottor Schulz storse il naso, mentre la fila dei miserabili si dispiegava davanti a  lui, terrorizzata dalle urla di altri tre soldati che comandavano in un tedesco sgarbato e ostile di fare in fretta. “SCHNELL! SCHNELL!”. Gli uomini eseguivano senza fiatare, in silenzio, i volti ridotti a maschere di dolore dagli occhi spenti. Sembravano non avere anima, nulla che li distinguesse l’uno dall’altro. Ciò che avevano di diverso era soltanto il numero che portavano cucito sul petto. Il Dottor Schulz si alzò dalla scrivania, facendo ondeggiare appena la bandiera nazista alle sue spalle. Gli occhi dei prigionieri si posarono su di lui, animati da un’improvvisa tensione. Con un cenno della mano, il Dottore ordinò al suo segretario di avvicinarsi. Un uomo alto e slanciato fu subito al suo fianco, una cartellina di plastica in mano. Il Dottore si avvicinò al 723. L’uomo si sbottonò la camicia infangata e mostrò il suo petto smagrito. Il Dottore lo visitò in silenzio, senza degnarlo di uno sguardo, senza dire nulla. Il silenzio regnava lugubre nella stanza. Dopo un po’, il Dottor Schulz borbottò qualcosa ai soldati. Questi si avvicinarono in fretta al 723 e lo trascinarono di peso fuori. L’uomo lanciò un urlo di supplica disperata, ma il Dottor Schulz era già concentrato sul 724. La raffica che venne da fuori echeggiò spaventosa. I prigionieri rabbrividirono appena. Passò una terribile mezz’ora. La fila dei prigionieri si riduceva lentamente. Molti altri furono condannati a morte per  la loro fragile salute; pochi superarono la visita. Il Dottor Schulz arrivò all’ultimo prigioniero, il 747. L’uomo era poco più alto di lui. Senza fiatare si spogliò e si lasciò visitare. Il Dottore procedeva lentamente, come aveva fatto con tutti gli altri. Improvvisamente si accigliò e riservò un’occhiata furente all’uomo. “Was ist da?” ( “Cosa è questo?”) . Così dicendo, gli strinse il braccio e glielo sollevò. Il prigioniero trattenne il respiro, mentre i suoi occhi piccoli e lucenti si posavano sulla stella a sei punte che portava legata al polso con una catenina. Sentì mozzargli il respiro e non impallidì perché il pallore della sua pelle aveva raggiunto il suo grado massimo durante quell’anno nel campo di concentramento. “Non portarmela via” sussurrò al Dottore. Il Dottore Schulz si voltò di scatto verso di lui. I loro occhi si incrociarono. “Sei italiano?” chiese il Dottore, accigliato. “Sì..”. Gli occhi del prigioniero si schiusero in un tiepido sorriso. “Come ti chiami?” continuò il Dottore, in un italiano marcato dall’accento tedesco. “Davide”. Il Dottor Schulz stringeva ancora il suo braccio. “Ti prego” sussurrò ancora Davide, in modo che solo lui potesse sentirlo. “Non portarmi via questo ciondolo. È l’unico ricordo che ho di mia madre. Ho fatto di tutto per nasconderlo ai vostri occhi”. Il Dottor Schulz lo fissò con sguardo indecifrabile, mentre una strana cosa nello stomaco si agitò. “Was passiert, Herr Schulz?” (“Cosa succede, Signor Schulz?”). Il segretario si era avvicinato, notando quello strano movimento. Il Dottor Schulz lasciò cadere il braccio di Davide e agitò la mano in direzione del segretario, intimandogli di non avvicinarsi. “ Lui resta con me” disse poi ad un soldato che capiva abbastanza l’italiano. “Potete andare”. I soldati uscirono dalla stanza con i pochi superstiti, lasciando soli Davide e il Dottor Schulz. “Mia madre era italiana” disse questi. Davide restava a testa bassa, in attesa di un qualcosa. “Io mi chiamo Heinrich” continuò il Dottor Schulz. Davide alzò lo sguardo su di lui, sorpreso che un Tedesco gli si stesse rivolgendo in un modo…umano. “E così quello era di tua madre?” chiese Heinrich, indicando la stella a sei punte. Davide prese il ciondolo tra le mani. “Sì”. Silenzio. Heinrich fissava Davide. Qualcosa nello stomaco si agitò ancora nell’osservare meglio i vestiti laceri ai suoi piedi e il corpo scheletrico dell’uomo. “Tua madre è in Italia?”. Davide abbassò il capo e strinse la stella a sei punte tra le dita. “No” rispose con voce roca. “Stava nel reparto femminile. È morta un mese fa”. Heinrich abbassò anche lui lo sguardo, senza sapere cosa dire. Improvvisamente il silenzio fu interrotto da degli strani singhiozzi. Heinrich alzò lo sguardo per vedere Davide tremare e cadere in ginocchio, le lacrime che gli scivolavano sul petto. Gli diede le spalle e si voltò immediatamente verso la bandiera nazista. “ Mi spiace” disse, cercando di assumere un tono neutro. Davide tacque. “Vèstiti” ordinò poi Heinrich, sempre senza voltarsi. Sentì Davide alzarsi e indossare di nuovo la sua misera divisa. “Hai fratelli o sorelle?” si informò ancora. “No” rispose Davide. “Mia madre era tutto per me”. Il bruciore allo stomaco si fece sentire ancora di più e Heinrich fu trascinato dai ricordi.
Ritornò ad una fredda sera di dieci anni prima, in uno studio caldo e tappezzato di libri. “State sbagliando tutto, Heinrich” gli stava dicendo una donna dai soffici capelli grigi. “No, mamma. Questa è la cosa giusta!”. La signora Schulz era seduta sulla poltrona dinanzi alla scrivania, mentre suo figlio guardava fuori della finestra dandogli le spalle. “Tuo padre non si è spaccato la schiena per farti diventare un suddito della violenza” disse la donna, quasi in lacrime. “Non pensi a cosa direbbe se ora fosse qui?”. “Mamma, adesso sono altri tempi. Papà avrebbe capito sicuramente. Hitler ci sta portando verso una nuova Germania”. “Follie!” commentò la donna, scuotendo la testa. “Come si può arrivare al progresso dell’uomo attraverso la distruzione di un altro uomo?”. Heinrich si voltò verso di lei con sguardo glaciale. “Gli Ebrei non sono uomini, mamma” ribattè. “NOI siamo uomini. Noi siamo i migliori”. La madre tuffò il viso tra le mani. “Come puoi dire queste cose? Come puoi?” singhiozzò. “Dove è finito il mio bambino generoso? Dove è finito il suo amore per l’altro, il rispetto dei suoi sentimenti, la comprensione per il suo dolore?”. Heinrich non rispose. Era seccato. “Adesso ho da fare, mamma” disse. La donna si alzò lentamente dalla sedia. “Ti prego, Heinrich” lo pregò ancora. “Ti prego. Non dimenticare quello che ti ho sempre detto…”. E poi, curva nelle sue spalle, lasciò la stanza assieme al suo dolore. Quella fu l’ultima volta che Heinrich vide sua madre.
Heinrich teneva ancora fissi gli occhi sulla svastica. Per la prima volta provò un senso di disgusto. Cosa stava facendo? Cosa aveva fatto? Si sentiva mancare il respiro. Il volto di sua madre in lacrime gli brillava dinanzi. Come aveva potuto ferirla? Come aveva potuto perdersi nel Mondo e dimenticare che le cose più importanti erano ben altre nella vita? L’Amore, l’amore… “Davide!” esclamò improvvisamente, facendo sobbalzare l’uomo dietro di lui. “Vieni con me!”. Lo prese per mano e lo trascinò fuori la stanza. Si trovarono all’aria aperta. Pioveva. Grosse, fredde gocce di acqua gelata li inzupparono in pieno. “Dove mi porti?” chiese Davide, senza capire, trascinato dalla folle corsa di Heinrich. “Verso la libertà” rispose Heinrich. Un tuono squarciò il cielo, mentre la pioggia cadeva sempre più fitta. Dei cani ulularono in lontananza. “Se ti vedono…” fece Davide lasciando la frase a metà, mentre Heinrich lo guidava tra le file di baracche com i capelli appiccicati in fronte. Correva, correva…Heinrich non riusciva più a fermarsi. Solo sua madre brillava davanti a lui. L’amore, l’amore… Arrivarono dinanzi al filo spinato che recintava il campo Tremando di brividi di freddo, Heinrich prese subito un martello posato lì per terra e cominciò ad usarlo con tutte le sue forze contro quel muro. Davide rimase impalato per un po’, guardandosi ansioso intorno. Poi notò anche lui un piccone poco distante. “Ti aiuto” disse sorridendo ad Heinrich, barcollante sotto la pioggia e la sua debolezza. Il Tedesco e l’Ebreo unirono le loro forze e ben presto il muro che li divideva dal mondo fu abbattuto: tra le spine si era aperto un varco. “Ecco fatto” sospirò Heinrich lasciando cadere il martello. Un tuono echeggiò ancora più forte nel cielo. Davide fissava il varco incantato, come se stesse immaginando ciò che poteva aspettarlo dall’altra parte. Era una sensazione bella, ma gli faceva anche paura. “Cosa aspetti?” disse Heinrich. “Vài! Presto!”. Davide alzò lo sguardo di lui e, per la prima volta dopo mesi, il suo volto fu incendiato da un luminoso sorriso. “Grazie…”. Per la prima volta dopo anni, il volto di Heinrich fu preso anche lui da un sorriso. “Abbi cura di te” sussurrò l’uomo che era stato il Dottor Schulz. Così dicendo si avvicinò a Davide e lo strinse in un veloce abbraccio. “WAS MACHT IIHR?” (“COSA STATE FACENDO?). Heinrich e Davide si staccarono in fretta, terrorizzati. Un gruppo di cinque soldati li aveva circondati, i fucili puntati. Gli occhi di tutti e cinque si spostarono sul varco nel muro di spine. “Herr Schulz!” esclamò sorpreso un soldato che riconobbe il Dottore. Heinrich deglutì. “SCAPPA” urlò a Davide. I soldati si agitarono appena, non capendo cosa volesse significare quel grido in italiano. Davide era paralizzato dalla paura. “SCAPPA!” ripetè Heinrich con più forza, piantando lo sguardo su di lui. Davide restò per un attimo immobile. Poi, come preso da una forza invisibile, diede le spalle ai soldati e corse oltre il varco. I soldati presero ad urlare e subito soffiarono proiettili nell’aria. Davide correva, per quanto il suo fisico esile glielo permettesse. Miracolosamente schivava ogni colpo. Heinrich lo guardava impietrito allontanarsi, pregando che non fosse ferito. “Via, Dottore!” gridò un soldato, che lo spinse per prendere la mira con un fucile da precisione. Heinrich sentì il cuore salirgli in gola: Davide sicuramente non si sarebbe salvato. Il soldato era pronto, il dito stava per scivolare sul grilletto…Davide correva…mancavano pochi passi ai primi alberi della foresta… BAM. Il proiettile partì. Il soldato lasciò cadere il fucile, orripilato. Il Dottor Schulz giaceva lì, davanti a lui, lungo la traiettoria che il proiettile avrebbe seguito per arrivare a Davide. Heinrich sentiva un dolore al petto, mentre qualcosa di caldo gli inzuppava i vestiti. Faceva male, molto male. Tutto cominciava a vorticare. Ma era contento. Vide sua madre sorridergli in lacrime, contenta. “Sì, mamma” sussurrò lui, con voce flebile. “L’ho fatto! Hai visto? Ce l’ho fatta…”. Sorrise. Per la prima volta nella sua vita aveva compiuto un gesto d’amore verso un altro essere umano. Verso quell’Ebreo che il suo mondo gli aveva insegnato ad odiare. “Abbi cura di te, Davide” sussurrò ancora. Tutto vorticò paurosamente..La pioggia batteva feroce sopra di lui. I soldati lo guardavano con disprezzo. Ma non importava… Sua madre era accanto a lui e gli tendeva le braccia.

Molti anni dopo,Davide, nella sua vecchiaia,lasciò scritta questa frase per i suoi nipoti: “Non tutta l’Umanità è da gettare nel fuoco. C’è ancora speranza, qualcosa che si agita dentro di lei. Siate bravi da aiutare l’altro a portare fuori la Luce. Il Male non porta a nulla. Ricordatevi che siete uomini! Non dimenticate che dentro di voi vive qualcosa di più grande di voi…” 

MARIANO SERVADEI 

LA TUA VITA

LA TUA VITA…

La tua Vita non è altro che un dono esclusivo per te. Un dono senza prezzo. Nessuno te l’ha comprata o venduta e nessuno può rubartela. Questo tesoro è per te e ti appartiene, anche se non sai chi o cosa, come e perché te l’abbia dato. Non essere però avaro o geloso. Un dono non ti viene dato per tenerlo nascosto, protetto, destinato ad ammuffire in una stanza buia. Ti viene dato per usarlo, condividerlo e, se proprio hai un cuore grande, donarlo per qualcun altro. Quando usi il dono della Vita, spesso ti viene voglia di gettarlo via, perché dono non sembra. Spesso non ti accontenta, non ti soddisfa. Lo maledici, vorresti liberartene, ma non ci riesci. Oppure costa troppa fatica condividerlo,perché temi che il dono degli altri possa sembrare più bello. E allora chiudi le porte a tutti, invidioso, superbo, convinto che sei tu il migliore o, forse, il peggiore. Ma poi, una volta solo, non riesci a  stare chiuso in casa. Esci, cerchi gli altri.  Poi li fuggi e ti senti disperato. È proprio questa al bellezza della Vita: fuggire e cercare, odiare e amare, piangere e ridere. Questa è al tua ricchezza: poter sentire allo stesso tempo la tempesta e il sole dentro di te. Condividere la tua vita è meraviglioso. Difficile, ma meraviglioso. Se lo fai, senti dentro di te qualcosa di sempre più grande e lo stesso dono sembra più lucido, cristallino. Da dono diventa donatore, perché è capace di dare qualcosa agli altri, in un continuo migliorarsi, fino a raggiungere una Luce. Se raggiungi quella     Luce, il Mondo è dentro di te e allora sei pronto a fare il Dono più grande: te stesso. Ti donerai con semplicità, amore, senza superbia e vanto. Ti donerai per il semplice amore di donare e rigenererai altri doni, riaprirai cantine chiuse da secoli e il profumo della Primula, simbolo della Vittoria, si spargerà nell’aria. La vita è un dono esclusivo per te; tu sei un dono esclusivo per la vita. 

MARIANO SERVADEI